Morningstar Investor - Luglio/Agosto 2011 - (Page 25)
In Primo Piano
È tempo di rivedere gli indici obbligazionari?
Di Marco Frittajon
Gli attuali benchmark sono esposti in modo massiccio ai Paesi più indebitati. La ricerca evolve verso nuove metodologie basate sul Pil.
Il 2005 segna la data di nascita di una tipologia di indici che ha come obiettivo quello di colmare le carenze metodologiche e sanare le disfunzioni operative degli indici che sono presenti storicamente sul mercato, quei benchmark che i portafogli o linee di investimento adottano per rappresentare il loro mercato di riferimento, ossia l’ambito di azione della strategia di investimento e delle scelte del gestore. Secondo una definizione di Borsa Italiana, il benchmark è un parametro oggettivo per la misura diretta della performance e per la valutazione del rischio tipico associato ad un investimento finanziario. Ha come elementi fondamentali la trasparenza delle regole di composizione, la rappresentatività delle politiche di gestione e la replicabilità attraverso titoli acquistabili direttamente sul mercato. La caratteristica dei nuovi indici è che non sono pesati per la capitalizzazione di mercato dei titoli sottostanti, ma si basano su indicatori dell’analisi fondamentale. Questi benchmark si chiamano Rafi e sono promossi dalla società californiana Research Associates. Il più noto è il Rafi 1000 index, presente anche nel mercato degli Etf. L’adozione di una metodologia alternativa, messa in campo inizialmente nel comparto azionario, trova piena giustificazione anche nel mondo dei bond. Mercato inefficiente Il punto di partenza sono le inefficienze di mercato (effetto noise-in-price) e queste si applicano sia al mondo equity sia al mondo bond. La regola d’oro degli operatori di borsa è “buy low, sell high” (comprare a prezzi bassi e vendere a prezzi alti), ma nella pratica avviene il contrario. Ciò è dovuto al meccanismo di costruzione e aggiornamento degli indici a capitalizzazione. Essi, infatti, attribuiscono più peso a titoli che hanno avuto un rialzo dei prezzi e meno peso a quelli che hanno rivisto al ribasso le proprie quotazioni. Questo significa, per esempio, che chi compra quote di fondi a gestione passiva oppure Etf, si carica di titoli nelle quantità sbagliate. L’idea di base che sta dietro agli indici fondamentali è che si dovrebbero mettere in portafoglio titoli rappresentativi di società in base alla reale dimensione del loro business e non al valore di mercato (che può essere distorto). Un modo per misurare la solidità di un’azienda è andare a vederne i ricavi, le vendite, i dividendi, il numero dei dipendenti, gli utili, ecc. A queste motivazioni di carattere generale si aggiungono le particolarità del mondo dei bond. Gli indici dei bond governativi sono costituiti dalle emissioni di titoli di debito di enti sovrani, come Italia, Germania, Francia. Il meccanismo che abbiamo visto prima valere per le azioni è replicato per l’ammontare di debito messo in circolazione da ogni Paese. Un fenomeno attuale nelle economie mature è quello di un crescente livello di debito contro un minore effetto espansivo delle loro economie. Secondo il Fondo monetario internazionale, il debito pubblico dei Paesi appartenenti al G20 ha un trend in salita, dal 78% del Pil nel 2007 al 120% nel 2015 (proiezione). Questo dato è in contrasto con quello dei Paesi emergenti in cui si stima un trend decrescente nei prossimi cinque anni fino a un livello del 33% sul Pil. La domanda lecita è dunque questa: il crescente livello di debito pubblico nei Paesi industrializzati può mettere in dubbio la metodologia con cui vengono costruiti i tradizionali indici obbligazionari? Per come stanno le cose, chi investe negli indici tradizionali, sta prestando denaro a coloro che fra tutti hanno già chiesto l’ammontare maggiore. C’è da domandarsi se il mercato sia abbastanza efficiente da saper allocare la maggiore fetta del denaro prestato a chi è veramente il più forte oppure solo a chi ha chiesto più denaro. Il dubbio è innegabile, soprattutto se si leggono i giornali finanziari degli ultimi periodi. Grecia, Irlanda, Spagna… L’acronimo Pigs è stato rinforzato di una doppia vocale, mettendo l’Italia (presente con un peso che varia fra il 20% e il 40% negli indici obbligazionari europei) fra i Paesi che hanno i conti più traballanti fra quelli dell’Eurozona. E infatti il salvataggio di alcuni di questi Paesi è una minaccia per la stabilità del sistema finanziario nel suo complesso (effetto domino). I sostenitori di una metodologia alternativa fanno notare un terzo problema, ossia la concentrazione verso emittenti che storicamente hanno polarizzato gli investimenti a discapito di nuovi segmenti di mercati dei capitali che, invece, stanno avendo forti ritmi di crescita e attraggono nuovi flussi di investimenti.
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Morningstar Investor Luglio/Agosto 2011
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